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Un posto al sole», incomprensibile successo che dura da 28 anni

Ha compiuto 28 anni il daily-drama italiano più longevo. L’ascolto medio delle puntate è di circa 1 milione 700.000 spettatori.

«Un posto al sole», incomprensibile successo che dura da 28 anni

L’attore Patrizio Rispoli, presente fin dalla prima puntata. Interpreta il portiere Raffaele

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Giorni fa ho letto numeri chi mi hanno fatto riflettere, sono quelli relativi a «Un posto al sole», il daily-drama italiano più longevo, prodotto dal 1996 a Napoli da Rai Fiction, Fremantle e Centro di Produzione Rai di Napoli e in onda dal lunedì al venerdì alle 20.45 su Rai 3.

I 28 anni di vita di «Un posto al sole», tradotti in numeri, significano 20 attori principali, oltre 2.500 attori ricorrenti e più di 9.500 figuranti speciali, 20.600 provini, 123.000 comparse, 130 registi di cui otto ancora «in carica», 175.500 minuti di trasmissione, 200 lavoratori dietro le quinte. E ancora, oltre 5.500 baci, 850 schiaffi, 78 bambini nel cast, 55 personaggi «arrestati», 32 animali sul set, 40 matrimoni e 28 funerali. L’ascolto medio delle puntate è stato di circa 1 milione 700.000 spettatori con uno share dell’8 per cento. Cosa mi sono perso? Uno dei motivi del successo, così si dice, è che le vicende dei condomini di Palazzo Palladini sono divenuti negli anni un fenomeno di costume: la serie intreccia i temi classici della soap — amori, intrighi, passioni, vendette, gelosie, amicizia — con il vissuto quotidiano e le tematiche sociali.

A questo punto mi sono chiesto: perché «Un posto al sole» non mi è mai piaciuto? So di espormi, so che tutti sono pazzi della soap napoletana, so che vado incontro al vituperio. Ho provato a leggere alcune delle prime recensioni che ho scritto sulla soap di origine australiana dove parlavo di «un prodotto completamente privo di identità, recitato male, affollato di personaggi (molti dei quali ragazzotti alle prime armi) quasi inespressivi» o di un tentativo di offrici una Napoli che non esiste.

Ammetto che sono giudizi labili, che non reggono più. Ah, l’impolverata stirpe dei recensori! Mi sento come Tommasino in «Natale a casa Cupiello»: «Te piace ’o presepe?» gli chiede continuamente il padre. E lo sciagurato risponde sempre «No!». Del resto, la recensione è per sua natura esercizio minoritario, con una piccola parte in commedia. Per dirla con Giorgio Manganelli, è «un sassoso letto di corrente», un ciottolo d’isola che sfida il mainstream.

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